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LA MIETITURA

LA MIETITURA A MONTECORONA

LA MIETITURA

Nel territorio montecoronese la mietitura incominciava nei primi giorni di luglio; il suo inizio dipendeva dal livello di maturazione del grano, dalle condizioni meteorologiche e dall'ubicazione del podere. Prima della seconda guerra mondiale, essa veniva eseguita solo ed esclusivamente utilizzando le braccia dei contadini e di altre persone, accorse a dare una mano.

Il taglio del grano era effettuato con falci a forma di mezzaluna: abbracciando con la mano sinistra i mazzi di spighe, le si tagliava a circa 50 centimetri dalla sommità.

La varietà del grano, utilizzata a quei tempi, produceva spighe alte per cui, alla fine, la paglia era tanta, ma la resa molto bassa. Per affilare il taglio delle falci, erano necessarie le "cote", che venivano poste in corni di bue, legati alla meglio alle cinture dei pantaloni. La mietitura aveva inizio alle prime luci dell'alba; verso le nove veniva servita la colazione: le donne arrivavano nel campo con le ceste di vimini, ricoperte da un telo per lo più a quadretti, in cui c'erano le vivande. Mi viene in mente la Brigida del Somarino, tutta dritta, che trasportava la cesta tenendola sulla testa e per attutirne il peso e favorirne l'equilibrio usava il cercine, una specie di corona fatta di pezze, messo sul capo.

Tutti i mietitori si sedevano all'ombra di un albero, intorno alla tovaglia stesa per terra, sopra la quale si metteva il pane tagliato a fette ed il "companatico": affettato di maiale, uova sode o frittata con la cipolla.

Finita la colazione, si riprendeva a mietere fino a mezzogiorno; la pausa del pranzo durava un due tre ore, in quanto il gran caldo non permetteva di lavorare, e veniva utilizzata per "battere" i falcetti che, a forza d'essere usati, perdevano il filo.

L'operazione veniva eseguita da un esperto, con l'ausilio di una attrezzatura rudimentale, costituita da una piccola incudine fissata ad un legno, generalmente di pesco, formato da un pezzo di tronco e da tre rami che fungevano da gambe, e da un martelletto: tale attrezzatura si chiamava "il cugno per arbatte la falce".

Terminata la pausa, si riprendeva la mietitura fino al sopraggiungere del buio, in quanto verso sera si lavorava meglio per la frescura.

Generalmente c'era chi mieteva e chi legava; il primo tagliava il grano fino a raggiungere la quantità sufficiente a creare un fascetto, il secondo lo legava con il "balzo" (intrecciando due mazzi di steli, si preparava una corda vegetale, il balzo appunto; lo si stendeva a terra e vi si adagiava sopra il fascetto; inginocchiandosi sopra, si comprimeva il covone con l'interno delle cosce e si procedeva a legarlo), operazione che richiedeva una persona esperta: al Colle di Montecorona il il più competente era Nello del Faggeto.

In genere erano gli uomini a legare le "gregne" (fasci di grano), in quanto indossavano i pantaloni e di conseguenza potevano salvaguardare le ginocchia. Esse poi venivano accatastate in "barchetti" (si creava uno strato di fascetti paralleli con le spighe all'interno; su di esso si iniziava un altro strato, con i fascetti disposti in maniera perpendicolare rispetto ai primi e si procedeva così creando una catasta più o meno alta), restando ad asciugare sul campo sino al momento dell' "arcarratura" (trasporto dei fascetti dai campi fino all'aia della casa). Se durante questo periodo fosse piovuto, la posizione delle "gregne" sul "barchetto" era tale che il grano non ne avrebbe risentito: infatti la posizione delle "gregne" poste nella parte alta del "barchetto", permetteva lo scivolamento dell'acqua ed il grano non si bagnava.

Quando il tutto era ben asciutto, veniva portato nell'aia ("arcarratura") e sistemato in maniera di creare un grande "barcone". A questo punto non rimaneva che aspettare l'arrivo della "macchina da batte", cioè la trebbiatrice.

Fra le attività dell'agricoltore la mietitura era la più faticosa, ma era vissuta in maniera gioiosa; la soddisfazione era tanta, in quanto si vedeva il frutto e la ricompensa per il proprio lavoro.


di Giuliano Sabbiniani


(Dal suo libro “Montecorona – la Tenuta e la sua gente” – gruppoeditorialelocale, Digital Editor srl, Umbertide - 2021)



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