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I PASSATEMPI

I PASSATEMPI A MONTECORONA

Di Giuliano Sabbiniani


I DIVERTIMENTI A MONTECORONA


I momenti di svago dei montecoronesi erano molto pochi, in quanto impegnati quasi sempre nei campi per procurare un tenore di vita accettabile alla famiglia. Infatti i contadini, specialmente nei mesi estivi, mandavano avanti i lavori del podere dall'alba al tramonto inoltrato. I salariati agricoli, oltre ai lavori consueti, ne svolgevano di saltuari, come fare la legna per casa, coltivare gli orti o andare ad aiutare i contadini, in cambio di qualche prodotto alimentare.

Il pomeriggio dei giorni festivi perciò era destinato, qualche volta, al riposo ed al divertimento. I possibili svaghi erano quelli che non richiedevano grandi spese, perché le risorse erano limitate.

Gli uomini si recavano, per lo più, presso le botteghe alimentari, che diventavano anche mescite di vino e di altri liquori. Erano delle bettole sature di fumo e frequentate da soli uomini, ai quali il tanto fumo a volte impediva di vedersi fra loro: qui si giocava a carte, si faceva la cosiddetta "passatella", all’esterno si giocava a bocce e, quando il vino riscaldava gli animi, si giocava a "morra". A proposito del gioco della "morra", ricordo quello che diceva allora un anziano signore del Colle: "A nò ci basta poco per diverticce, boce, deti en bicchier de vino per rischiaricce la voce", cioè "A noi basta poco per divertirci, la voce, le dita e un bicchiere di vino per rischiarare la voce", ossia giocare a "morra".


I PASSATEMPI DEI GIOVANI

I ragazzini di Montecorona non avevano in genere molto tempo da concedere al divertimento: le bambine aiutavano la mamma nelle faccende domestiche ed accudivano i più piccoli, i bambini venivano avviati presto ai lavori nei campi.

Nei giorni festivi, quando le condizioni meteorologiche lo permettevano, si riunivano in qualche aia per giocare e passavano tanto tempo all'aria aperta: giocavano tutto il pomeriggio fino a quando, all'imbrunire, ritornavano stremati nelle loro case.

Si inventavano e si costruivano da soli i loro giochi con i materiali che avevano a disposizione, dando sfogo alla propria fantasia; si divertivano, nella loro semplicità, accontentandosi di poco.

C'era il piacere di fare parte del gruppo, di mettersi alla prova e riuscire a superare le difficoltà. I giochi dei bambini erano fatti più di parole e gesti che di mezzi; la povertà dava spazio all'attività della persona, all'estro inventivo, alla fantasia, all'astuzia, al confronto ragionato con l'avversario, che era sempre un bambino e non un pezzo di plastica o metallo.

Ai maschi piaceva il gioco del pallone; si giocava dove c'era un piccolo spiazzo, come un'aia, un prato o un campo di erba medica appena tagliata; due maglie, due cartelle o due bastoni diventavano la porta; i palloni erano di plastica che si bucavano quando finivano su un filo spinato.

Un altro gioco maschile era la fionda, necessaria per cacciare uccelli o per fare tiri di precisione, che tutti i ragazzi si costruivano utilizzando un ramo biforcuto, due elastici ritagliati dalle camere d'aria delle ruote delle biciclette e un pezzo di cuoio ricavato da scarpe vecchie.

Le ragazzine preferivano giocare a campana: se c'era la pavimentazione per disegnare la campana, si utilizzava un gessetto; se invece il piano era di terra, le linee si tracciavano con la punta di un bastone.

Ogni giocatrice si doveva procurare una piccola pietra piatta, un po' ruvida per evitare che scivolasse. Si doveva lanciare la propria pietra nella prima casella: se la si centrava, si aveva il diritto di affrontare il percorso saltellando su una gamba sola; arrivati alla fine del percorso - fatto di varie caselle -, si doveva invertire la direzione e ricominciare il percorso all'indietro; passando per la casella ove era stata lanciata la pietra, bisognava riprenderla e completare il percorso. Si ricominciava lanciando la pietra nella casella successiva, si ripartiva per un nuovo percorso e si andava avanti così fino al completamento dell'ultimo giro. Vinceva chi arrivava per prima. C'erano solo pochissime regole: la pietra e la giocatrice non potevano toccare le righe che delimitavano la casella; se si pestava la riga o la pietra cadeva su una casella sbagliata, ella perdeva il proprio turno e ripartiva soltanto dopo che tutte le altre avevano giocato.

Il gioco, che accomunava maschi e femmine, era "nascondino"; oltre che facile e divertente, si poteva effettuare in qualsiasi luogo. Scelta la cosiddetta "tana" (un albero, un muro, una porta ecc..), si designava chi doveva contare ad occhi chiusi, mentre gli altri partecipanti andavano a nascondersi; una volta concluso il conteggio, iniziava a cercare i compagni nascosti ed, appena ne avvistava uno, gridava il suo nome e correva verso la tana insieme a quello scoperto: il primo dei due che raggiungeva la tana doveva toccarla e gridare: "Tana"; l'ultimo, che veniva battuto, doveva poi andare alla conta.

Un altro gioco, che accomunava maschi e femmine, era "mosca cieca" e si giocava quasi sempre all'aperto: un giocatore, scelto a sorte, veniva bendato e di conseguenza diventava la "mosca cieca"; egli doveva riuscire a toccare gli altri che potevano muoversi liberamente intorno. Se la mosca toccava un giocatore, questi prendeva il suo posto.

I ragazzi di Montecorona, che abitavano "al piano", vicino al Tevere, amavano praticare la pesca; realizzavano interamente da soli l'attrezzatura: la canna era una di quelle domestiche che si trovavano vicino alle dighe - i più fortunati possedevano una canna di bambù - i galleggianti venivano fatti con il sughero di un tappo di bottiglia; per la piombatura si usava del piombo fuso; per l'esca, bastava andare nel letamaio e prendere i vermetti che non mancavano mai. Le uniche cose che si compravano erano gli ami e un po' di lenza. Al Tevere quelli più piccoli andavano accompagnati dagli adulti, ma potevano pescare da soli nei fossi e nelle piccole dighe.

In quei tempi la pesca con la canna o con la rete ("gualandro") non era in realtà un vero e proprio sport, ma il più delle volte serviva per procurare la cena per l'intera famiglia.

I ragazzi di Montecorona, negli anni Sessanta, si potevano permettere poche volte di andare al cinema ad Umbertide e, quando ciò era possibile, ci andavano a piedi.

Negli anni Settanta un gruppo di ragazzi, appassionati di calcio, venne ricevuto dall'allora direttore della Tenuta, Giampiero Boniperti, chiedendo di poter utilizzare il campo antistante l'Abbazia. Generosamente il sig. Boniperti fece costruire un campo da calcio e lo mise a disposizione dei ragazzi del posto; in seguito a ciò, nacque la società sportiva "Montecorona calcio".


LA CACCIA

Lo sport più frequentato dai vecchi montecoronesi era la caccia: veniva esercitata un po' per passione ed un po' per integrare la dieta contadina con le proteine contenute nella cacciagione.

In quel tempo i controlli venatori erano quasi inesistenti; si cacciava con il fucile ed il cane, seguendo le tracce degli animali; qualcuno utilizzava il "diluvio", composto da due stanghe ed una rete, nella quale ci si impigliavano i passeri ed altri piccoli uccelli.

Nel periodo venatorio i contadini si svegliavano prestissimo per accudire il bestiame, per poi avviarsi nel bosco in compagnia della doppietta e del cane. La sera, davanti al camino, si raccontava di quello che era successo, menzionando i punti precisi del bosco, dove si era trovata la selvaggina. Colui che ascoltava il racconto, veniva fatto partecipe dei luoghi battuti dal cacciatore, in quanto ogni posto del territorio montecoronese aveva un nome ed esso compariva subito nella mappa immaginaria che ognuno aveva nella propria testa.


LE "VEJE"

Dopo cena (d'inverno si cenava che ancora non era buio) era usanza fare visita ai vicini e dare vita alle cosìdette "veje" (veglie). Si stava davanti al camino chiacchierando, raccontando storie, barzellette, leggende...

Gli uomini giocavano a carte e, davanti ad un bicchiere di vino da sorseggiare, discorrevano dei fatti quotidiani, dei raccolti e della caccia; le donne si ritiravano in un angolo della cucina e facevano la maglia o ricamavano il corredo e sparlavano del più e del meno.

I giovani, sotto l'occhio vigile dei genitori, approfittavano di questa promiscuità per parlare d'amore. I bambini ascoltavano le storie, che venivano narrate da quelli bravi nel raccontare, e restavano a bocca aperta, sentendo parlare di fantasmi, spiriti dispettosi, streghe, orchi e lupi: molte di queste storie erano inventate al momento con maestria.



(Dal suo libro “Montecorona – la Tenuta e la sua gente” – gruppoeditorialelocale, Digital Editor srl, Umbertide - 2021)



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