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Fig. 1: Carta generale del territorio comunale di Umbertide con distinzione delle tipologie insediative (elaborazione creata sul modello realizzato dall’Associazione Pro Loco di Umbertide). I toponimi ivi riportati si riferiscono a quelli degli insediamenti trattati nella ricerca. 

Aprile

Aprile 1944 -

5 aprile: L’ Umbria nel mirino degli aerei inglesi...

Aprile 1944


5 aprile

L’ Umbria nel mirino degli aerei inglesi: bombardata Terni.


Ormai aerei alleati dal Campo-base di Cutella colpiscono quasi ogni giorno l’Umbria. Nell’area assegnata alla Desert Air Force, è Terni il punto focale per attacchi di interdizione. Oggi, con due potenti attacchi, hanno colpito le centrali idroelettriche di Papigno e Galleto, a soli otto chilometri da Terni, interrompendo la produzione di energia elettrica per la ferrovia.


6 aprile

È morto Ciocchetti Oliviero


17 aprile

È deceduto a Maddaloni Benizi Ormindo.


20 aprile

La guerra miete vittime da entrambe le parti.


Dall’inizio dell’anno sono caduti anche dei militari umbertidesi: uno appartenente ad una formazione della Repubblica di Salò, due in prigionia e quattro dispersi.

Ma anche gli Alleati subiscono delle perdite.

Oggi, durante un attacco aereo, il tenente D. R. Barret, alla sua prima missione, è stato visto scendere in picchiata; da quel momento si sono persi i contatti con lui, nonostante i tentativi di collegamento via radio.

La contraerea ha colpito l’aereo del tenente Benner, che è stato ferito alle mani e poi ricoverato in ospedale.

Un altro imprevisto si è verificato al ritorno di una missione contro un convoglio navale, quando gli aerei sono dovuti atterrare di notte con la pista scarsamente illuminata. È andata bene perché c’è stato un solo incidente, causato dalla collisione a terra fra due velivoli.

È da qualche tempo, comunque, che si registrano inconvenienti, anche molto gravi, per la base aerea alleata.

Nel corso della missione antimeridiana del 3 aprile, il tenente Weber con il suo aereo si è schiantato in mare a duecento metri dalla riva, a Montemarciano, otto chilometri a nord di Ancona. Il pilota è stato visto galleggiare con la sua cintura di salvataggio e fare cenni con le braccia verso il caposquadriglia, che si era abbassato per accertarsi della situazione. Dopo poco è stato recuperato da una barca di pescatori italiani, che lo hanno portato a riva. Si spera che presto possa ricongiungersi ai compagni.

Ma il più grave incidente, si è verificato il 6 aprile. Durante il rifornimento di carburante e di bombe, è esploso un aereo, provocando scoppi e incendi a cascata. È stata una catastrofe: sono morti otto uomini ed undici sono rimasti feriti. Per fortuna non è saltata in aria la santabarbara principale.

Nella base serpeggiava già un certo malcontento perché le condizioni atmosferiche non avevano permesso l’atterraggio dell’aereo postale. Non lo si è visto neanche nei giorni successivi, nonostante le condizioni meteorologiche fossero migliorate. La colpa era stata attribuita alle tempeste di sabbia che imperversavano in Egitto: ma questa spiegazione non era certamente servita a rasserenare gli animi, almeno fino a quando, con la posta, è ritornato il buonumore.

Anche altri fatti positivi hanno contribuito a rasserenare il clima.

È ritornato al Campo-base il capitano Spies, dato per disperso il 29 marzo: si è ricongiunto ai compagni, dopo aver passato diversi giorni di grande tensione per eludere la caccia dei tedeschi.

In questo ultimo periodo, il personale a terra è impegnato senza respiro ad organizzare il trasferimento del Campo. La nuova locazione è stata individuata sull’altipiano a nord di Vasto, sulla riva sinistra del Sinello. Così sarà possibile avanzare il raggio d’azione delle incursioni contro gli obiettivi strategici oltre la Linea Gustav, cioè in Umbria e Marche: la distruzione di tali obiettivi è essenziale per impedire i rifornimenti tedeschi alle linee di combattimento, attestate soprattutto ad occidente, intorno a Cassino.

La giornata si è conclusa con un evento piacevole: nella serata è stata organizzata una festa alla mensa degli ufficiali alla quale sono state invitate alcune infermiere dell’Ospedale Generale.


21 aprile

Alla base di Cutella

Dopo i massicci attacchi alle centrali elettriche ed ai principali scali ferroviari, da un paio di settimane sono stati presi di mira i ponti, ad opera degli aerei “Kittyhawk”, molto efficaci nei bombardamenti in picchiata. Per dimostrarlo, sono stati inviati al Ministero dell’Aviazione, in Inghilterra, i documenti fotografici di un ponte distrutto.

Oggi un imprevisto si è verificato al ritorno di una missione contro un convoglio navale, quando gli aerei sono dovuti atterrare con la pista illuminata: roba da brividi! È andata bene che c’è stato un solo incidente, causato dalla collisione a terra fra due velivoli.

La paura è stata compensata dal ritorno al Campo del capitano Spies, che era stato dato per disperso il 29 marzo: si è ricongiunto ai compagni, dopo aver passato qualche giorno di grande tensione per eludere la caccia dei tedeschi.

Altri fatti positivi hanno rasserenato il clima. Ha fatto visita al Campo l’automezzo attrezzato per la proiezione di film: il personale ha potuto assistere a “Texas Ranger Ride Again”.

Ma c’è posto anche per gli organi disciplinari: sono arrivati al Campo i membri della Corte Marziale per giudicare il comportamento di due soldati.


21 aprile

I ponti in Umbria obiettivi delle incursioni degli Alleati.

Già dal 6 aprile era stato colpito il ponte di Bastia. Successivamente è stato preso di mira quello di Spoleto. Durante un attacco il tenente D. R. Barret, che era alla sua prima missione, è stato visto buttarsi in picchiata; poi non si è più sentito, nonostante i tentativi di collegamento con la radio.

È stato fatto un “eccellente lavoro” ad un altro ponte, che è stato centrato in più parti. Ma la contraerea ha colpito gli aerei del capitano Odenaal e dei tenenti Stubb e Benner. Quest’ultimo è stato ferito alle mani e ricoverato all’ospedale; le sue ferite non sono gravi e fra poche settimane sarà pronto per rientrare in azione.


***Primo governo di Unità Nazionale.

In seguito alla “Svolta di Salerno”, il Partito Comunista Italiano ha accettato di collaborare con Pietro Badoglio, capo del governo dal 25 luglio 1943, e la Monarchia.

È il primo governo aperto ai sei partiti riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale: Democrazia Cristiana, PCI, Socialisti, PLI, Partito d’Azione, Partito Democratico del Lavoro


22 aprile

Il maltempo ostacola i raid aerei.

Nella base aerea di Cutella, il personale a terra è impegnato senza respiro ad organizzare il trasferimento del campo.

Al contrario, l’attività dei piloti è meno frenetica del solito. Ultimamente il maltempo ha costretto a terra gli aerei.


23 aprile

Attività della brigata partigiana “San Faustino”


La Brigata “San Faustino” sta svolgendo una metodica attività di guerriglia: azioni notturne di disturbo per procacciarsi armi e rifornimenti, sabotaggi di linee telefoniche. Il transito per i tedeschi è diventato insicuro.

Il risultato è superiore alle attese: la solidarietà dei contadini e dei preti di campagna non fa mancare nulla agli inesperti partigiani; soprattutto riesce a creare la convinzione che il quadrilatero tra Città di Castello, Umbertide, Cagli e Gubbio sia in mano a bande di ribelli pericolose ed armate fino ai denti.

Qualche giorno fa, a Mocaiana, i partigiani della Brigata “Urto” hanno assalito il treno Arezzo- Fossato di Vico, disarmando e catturando una decina di fascisti. Anche a Pietralunga i partigiani hanno catturato dei militi ed asportato un’ingente quantità di munizioni ed armi.

In clandestinità è difficile sopravvivere: ciò è possibile solo grazie al sostegno della popolazione, che li accoglie, li nasconde, li sfama. C’è solidarietà diffusa verso le formazioni partigiane, senza nessuna spiata, nonostante il fascismo sia fortemente radicato nella Provincia.


***L’attività alla base di Cutella.

In questi ultimi giorni, il personale a terra è impegnato senza respiro ad organizzare il trasferimento del campo. La nuova locazione è stata individuata sull’altipiano a nord di Vasto, alla riva sinistra del Sinello. Così sarà possibile avanzare verso settentrione il raggio d’azione delle incursioni contro gli obiettivi strategici oltre il fronte, in Umbria e Marche: la loro distruzione è essenziale per fiaccare i rifornimenti tedeschi alle linee di combattimento, attestate soprattutto ad occidente, intorno a Cassino.

Al contrario, l’attività dei piloti è meno frenetica del solito. Ultimamente, il maltempo ha costretto a terra gli aerei, che hanno potuto effettuare solo un’incursione contro un ponte. La scarsa attività bellica ha concentrato l’attenzione sulla preparazione del trasloco: tutti gli assistenti della squadriglia hanno partecipato ad una riunione al Quartier Generale. La nuova locazione è stata individuata sull’altipiano a nord di Vasto, sulla riva sinistra del Sinello. La data del trasferimento è stata ipotizzata, al momento, per il 26 aprile; ma i pareri al riguardo sono discordi.

Un argomento di distrazione - molto più frivolo - riguarda il ritorno del maggiore R. L. Morrison, previsto per il 26 aprile. Con il suo rientro in servizio come Ufficiale Comandante del Campo, sarà superata una fase di eccezionale provvisorietà: difatti il maggiore è stato sostituito dal pari grado Withe, che a sua volta è andato in licenza. In sua assenza, il comando del Campo è stato assegnato al tenente Jandrell. Questa duplice sostituzione ha dato stura ai consueti pettegolezzi sulle capacità degli ufficiali subentrati. Oltre tutto, il maggiore Morrison ha un gran carisma: è uno dei componenti originari dello squadrone, a cui appartiene già dal momento della partenza dall’Unione. Insomma: è probabile che al tenente Jandrell stiano fischiando le orecchie.

Per il resto ozio e noia; estenuante noia, sotto la pioggia che da diversi giorni continua a battere sulle tende.


24 aprile

Ripresi i bombardamenti degli Alleati.

Dalla pista di Cutella sono decollate due missioni, una nella tarda mattinata ed una a metà pomeriggio, per distruggere il ponte di Fabriano. Durante la seconda incursione, non tutto è filato liscio: dopo aver mitragliato un treno, il tenente A.W.S. Facer ha avvertito via radio di essere stato colpito ed ha comunicato l’intenzione di tentare un atterraggio di fortuna. Nella manovra, l’aereo ha

aperto un solco in un campo e si è incendiato. Gli altri piloti hanno orbitato intorno in ricognizione, ma non hanno visto movimenti intorno al relitto.

L’abbattimento dell’aereo di Facer ha ricordato ancora una volta quanto sia fragile il filo che tiene sospesi gli aerei e la vita dei piloti.

In particolare è teso ed ansioso il tenente Jandrell, perché domani sarà l’ultimo giorno in cui ricoprirà il ruolo di Ufficiale Comandante del Campo, essendo previsto per dopodomani il ritorno in servizio del maggiore Morrison. È smanioso di sfruttare l’occasione – più unica che rara – per dimostrare le sue capacità ed acquisire crediti in vista della prossima fine della guerra e delle prospettive di carriera. Spera vivamente che domani il tempo sia bello e che si riesca a volare: è decisivo, per il tenente, colpire l’obiettivo – un ponte sul Tevere, in alta Umbria – dopo i rinvii per maltempo dei giorni scorsi nella zona.


24 aprile

Passata una notte tranquilla.

La notte dormono tutti in paese

Domani sarà un’altra giornata dura, alla ricerca del poco necessario – che nelle nostre campagne manca meno che altrove – per sfamare le famiglie e appigliarsi alla speranza che presto si possa ritornare alla normalità.



Apocalisse dal cielo


25 aprile

Il risveglio

Il sole ha illuminato questo martedì. È la festa di San Marco Evangelista: si spera che porti qualche buona novella. È un mattino ventoso, con molta rugiada ed un po’ di foschia. Ma in alto il cielo è sereno, striato da pochi veli di nuvole bianche: promette una bella giornata. Sui monti, intorno a Pietralunga, alcuni boscaioli del paese, andati su di buonora per tagliare

traverse e pesare il carbone, hanno visto passare un paio di ricognitori – le “Cicogne“ – che, serpeggiando, planavano verso Umbertide. Li ha visti anche il partigiano Elio che ha ripreso velocemente il cammino, da Candeleto verso casa, per avvertire dell’imminente minaccia. Infatti, la sera precedente un ufficiale inglese aggregato ad un gruppo di partigiani sulla montagna di Monte Nerone aveva avvertito i compagni: "Domani… Umbertìde … bumm bumm". Ed aveva spiegato il significato di quel minaccioso suono ripetuto, agitando sopra la testa entrambi i pollici versi, dall’alto in basso, a simulare cose che cadono dal cielo.  Elio, che fa parte del gruppo, per una volta aveva perdonato la pronuncia anglosassone del nome del proprio paese, con l’accento sulla sillaba sbagliata: Umbertìde. Aveva annuito, lentamente, come un automa, a bocca socchiusa e gli occhi sgranati. Ripresosi dallo sgomento, era partito a passo lesto verso casa sua a San Benedetto, per dare l’allarme.


Verso le sette, infatti, i velivoli volteggiano molto in alto, sopra Umbertide. Ai più non creano particolare allarme; solo in qualcuno insinuano una sensazione di pericolo.

Dopo un’oretta, ecco di nuovo i ricognitori, che vogliono dare un’altra occhiata.

Quando sono sopra il Buzzacchero, cominciano a buttare dei bigliettini, sballottati subito dal vento, in cui si invita la gente a lasciare l’abitato.


 La mattinata è iniziata; la vita riprende, come al solito. 

 Alle 9, le tabacchine stanno facendo la cernita. Le scuole hanno cominciato le lezioni. Le botteghe sono aperte: oggi sono in distribuzione, con la tessera annonaria, le razioni del sale, della conserva e dei generi da minestra.

   Carlo Viglino, dirigente del partito fascista locale, è partito per Perugia, insieme a Betto Guardabassi, con l’auto di Teodoro Roselletti. Va ancora una volta in Prefettura, preoccupato ed irritato, per sollecitare l’organizzazione dell’allarme alla popolazione: è convinto che, dopo Terni e Ponte San Giovanni, sia arrivata l’ora del bombardamento di Umbertide, che costituisce un nodo stradale di rilevante importanza per il rifornimento delle truppe tedesche verso il fronte sud.


    Oggi è anche il giorno delle “rogazioni”. Nelle zone di campagna, dove la tradizione è più sentita, i contadini si stanno incamminando verso le chiese parrocchiali, per la processione. 

   Altrove si lavora come sempre. Si ara con le bestie. Si zappa il granturco ed il cece.



 OPERAZIONE Strategic target R641144155


   Anche a Cutella il tempo è splendido. Il Campo-base brulica di militari indaffarati: alcuni smontano le tende per trasferirle al Sinello; gli addetti all’armamento trasportano le bombe con i carrelli sotto le carlinghe; i piloti alla mensa scherzano fra loro, mentre mangiano uova e pancetta e bevono tè caldo e latte.

   Il sole, dopo giorni di maltempo, mette di buonumore. C’è quasi eccitazione per il volo imminente.



Immagine n. 1: I piloti studiano il piano di volo. Da Mario Tosti, "Il nostro calvario", Petruzzi Editore, Città di Castello, 2005


  

Fuori, la brezza che sale dal mare è sovrastata dal vociare degli uomini indaffarati intorno alle macchine. Le bombe sono issate sotto gli aerei ed il carburante viene versato nei serbatoi, mentre i meccanici smanettano intorno ai motori. 

   Tutto è a posto! Il mare sulla destra è diventato una striscia violetta, che sfuma verso un cielo bianco appena velato di celeste. A sinistra, le “groppe” dei monti si stagliano brulle ed impassibili. I piloti si dirigono verso i cacciabombardieri Curtiss P 40, con il nomignolo di Kittyhawk, (falchi pellegrini), e scompaiono dentro le carlinghe; diventano un tutt’uno con le macchine da guerra, sia

nel corpo sia nello spirito.Uno dietro l’altro si accendono i motori, che zittiscono tutto il resto; alzano tutt’ intorno un

uragano di vento sul grano alto che si piega, quasi inorridito per l’intrusione.Da terra si opera a cenni. Un aviere a lato della striscia d’acciaio, mostra il “Pollice recto” per i piloti [Esso si tradurrà in “pollice verso” per gli abitanti di un paese inconsapevole, adagiato ai

bordi del Tevere, nell’altro versante dell’Appennino. N.d.r.].


Si parte per l’operazione n. 225 del 25 aprile 1944.


Sono le 8 e 50.

Il tenente Jandrell apre il gioco. A tutta manetta sferza il suo cavallo d’acciaio che si avvia con fatica, avvertendo tutto il peso del sovraccarico. Accelera alla ricerca della forza per staccarsi da terra, sommerso dal rumore parossistico dei motori e dal rullio delle strisce di ferro che scorrono sotto le ruote. Sembra impossibile, ma ce la farà come sempre a sollevarsi. Scompaiono le vibrazioni della pista, dando la sensazione momentanea di scivolare sull’olio, in silenzio. Il muso rosso dell’aereo punta in alto, lasciandosi dietro i campi verdi e le masserie che rimpiccioliscono sempre più. I motori si fanno di nuovo sentire con la loro potenza, riprendendo a ruggire per portarsi in quota.



Immagine 2: La formazione di 12 aerei Kittyhawk, (falchi pellegrini). Da Mario Tosti, "Il nostro calvario", Petruzzi Editore, Città di Castello, 2005


Il capofila rallenta per aspettare che gli altri falchi si affianchino per procedere insieme, come aironi in migrazione di ritorno, dopo aver svernato in Africa.

L’insolito stormo punta verso un monte diverso da tutti gli altri – Monte Acuto – che è riconoscibile fin dai Sibillini per chi vola a bassa quota, con il suo profilo aguzzo e prominente. “Calvo“, senza vegetazione nel versante occidentale, esuberante di fronde dalla parte dove nasce il sole, quasi per fargli festa, e dolcemente sdraiato, come un dinosauro chinato a brucare querce della vicina Valcinella: un monte narciso, insomma, che ama distinguersi. Per completarne l’originalità, gli uomini gli hanno piantato anche una croce sulla gibbosità più alta.

I piloti del 5° squadrone aereo del 239° Stormo Wing Desert Air Force sono curiosi di riconoscere, fra tutti gli altri, questo monte aguzzo. Il capopattuglia scende a bassaquota per individuarne il profilo, stagliato contro il cielo. Eccolo laggiù! Ormai non è più necessario controllare l’orizzonte giroscopico, il direzionale, il variometro. Basta volare a vista, seguendo il nastro serpeggiante del fiume che luccica in mezzo alla valle, puntando come falchi verso quella montagna che fa da palo all’oggetto della missione: il ponte sul Tevere.

Il tenente Jandrell apre il gioco. A tutta manetta sferza il suo cavallo d’acciaio che si avvia con fatica, avvertendo tutto il peso del sovraccarico. Accelera alla ricerca della forza per staccarsi da terra, sommerso dal rumore parossistico dei motori e dal rullio delle strisce di ferro che scorrono sotto le ruote. Sembra impossibile, ma ce la farà come sempre a sollevarsi. Scompaiono le vibrazioni della pista, dando la sensazione momentanea di scivolare sull’olio, in silenzio. Il muso rosso dell’aereo punta in alto, lasciandosi dietro i campi verdi e le masserie che rimpiccioliscono sempre più. I motori si fanno di nuovo sentire con la loro potenza, riprendendo a ruggire per portarsi in quota.

Il capofila rallenta per aspettare che gli altri falchi si affianchino per procedere insieme, come aironi in migrazione di ritorno, dopo aver svernato in Africa.


La tempesta


Sono le 9 e 40

L’udito come difesa: perché sono i rumori, sempre, ad annunciare i fatti. Dalla cadenza degli scarponi, dal bussare alle porte, al sibilo sinistro degli aerei. I rumori hanno un linguaggio diverso, secondo i tempi; e quelli del tempo di guerra sono udibili immediatamente per un vigile senso di attesa e di allerta.


Un brontolio lontano annuncia l’approssimarsi di aerei.


PRIMA STAZIONE DEL NOSTRO CALVARIO

Gesù davanti a Pilato è condannato a morte

Il paese impotente è lasciato in balia dell’arbitrio della barbarie.


Ora si possono vedere. 

Sono sedici. Dodici cacciabombardieri volano più bassi; gli altri quattro sono caccia di scorta –Spitfire – e girano tanto in alto che quasi nessuno li nota. La maggior parte della gente continua tranquillamente la propria vita, ormai assuefatta a quel rombo con cui negli ultimi tempi ha imparato a convivere. Gli aerei compiono evoluzioni ad alta quota: vengono giù in cerchio o in picchiata e poi risalgono.

Sembrano giocare. Nel cielo azzurro e pulito di primavera, quei piccoli aerei non preoccupano. I velivoli americani, invece, sono tutt’altra cosa: quadrimotori d’argento dal rumore inconfondibile, che volano sempre ad alta quota in formazioni di trentasei.

Quattro aerei, stanchi del carosello, accennano a lasciare il girotondo, dirigendosi decisi verso il paese. Dei primi due, uno vira verso il Faldo; l’altro, abbassatosi sulla località “Schioppe”, segue il corso del Tevere verso Montecorona. Gli altri due li seguono a distanza.

La maggior parte di quanti si sono fermati ad assistere allo spettacolo, riprende il cammino interrotto, pensando che lo spettacolo sia finito.

Non sanno che è il prologo di una tragedia immane.Infatti i due aerei, giunti sopra Montecorona, virano verso Poggio Manente. Il primo aereo, pilotato dal capo-pattuglia Jandrell, punta il muso rosso verso il ponte sul Tevere.

Il cacciabombardiere compare all’improvviso alla gente in piazza, che guarda in su, attratta dal rombo crescente, ma allo stesso tempo paralizzata nelle gambe e nella mente: piomba in picchiata verso di loro, stagliandosi nero contro il cielo.




Immagine 3: L’aereo in picchiata sgancia le bombe. Disegno di Adriano Bottaccioli


All’improvviso due cilindri luccicanti abbandonano la pancia del “picchiatello”; fanno un paio di capriole, quasi indugiando; poi iniziano a precipitare, lasciando una scia rossastra in mezzo al frastuono assordante del motore.

La maggior parte della gente rimane bloccata, attonita: non riesce ancora a credere a quello che sta succedendo, che stia arrivando la morte sul paese, sugli amici, sui famigliari, su di sé!

Gli ordigni sembrano ancora volteggiare sopra le teste della gente in piazza, come sostenuti dalla volontà delle persone atterrite. Poi scompaiono, sibilando, dietro la farmacia, verso il Tevere. Al di sopra delle bombe sta sopraggiungendo anche l’aereo che le ha sganciate, preceduto dal crepitio delle pallottole delle mitraglie sui tetti e dal ruggito parossistico dei motori che vogliono risalire; la fusoliera, diventata d’argento nel riflettere i raggi del sole, scompare in una lunghissima frazione di secondo dietro le case.


Sono le 9 e 45.



Immagine 4: La bomba scoppia sul greto del Tevere. Disegno di Adriano Bottaccioli


L’aereo risale sopra il paese attonito


Le bombe esplodono!!!La terra trema!Lo spostamento d’aria, provocata dall’esplosione degli ordigni sul terreno, dispiega la sua forza

tremenda.Sempre più gente strilla: “Bombàrdono, bombàrdono!”.Le colonne di fumo, scaturite dalla radice del lampo dell’esplosione, si fondono fra loro in una

nube, che si gonfia minacciosa espandendosi a dismisura. Un gran polverone segue la tempesta iniziale di sassi ed invade il paese.




Immagine 5: Fotomontaggio di Valerio Rosi su foto di Amedeo Massetti e immagine dell’aereo P40 fornita da Andrea Gragnoli.


Il boato risveglia tutti quelli che hanno assistito alla scena, sbigottiti e pietrificati; l’istinto di sopravvivenza li porta a scappare. Anche molti di quanti l’hanno solo sentito, intuiscono e fuggono verso punti più sicuri.

Bombardano davvero un paese inerme! Anche qui è arrivato il fuoco violento di un mondo impazzito! Anche qui si può morire, senza ragione, come in ogni parte del mondo quando l’uomo perde il ben dell’intelletto...

Gli altri tre aerei del primo quartetto sganciano le loro bombe – sei in tutto -, che demoliscono le abitazioni fra la testata est del ponte e l’inizio di Via Cibo; alcune cadono sul greto del Tevere.

Il tutto è durato un lungo, interminabile minuto! Il borgo di San Giovanni, sventrato, non esiste più’!

Quando l’ultimo aereo del primo quartetto si è ricongiunto agli altri, essi continuano a girare sopra Romeggio per valutare il risultato dell’attacco e riflettere sul da farsi.

L’uragano di sibili laceranti, seguiti da esplosioni, si è momentaneamente chetato.

L'aereo risale sopra il paese attonito.


Sono le 9 e 46.

La fugaIntanto la gente è fuggita ai margini del paese o si è rifugiata al coperto.Le nubi di polvere sollevate dalle bombe si sono spostate verso sud-est, spinte da una leggera

tramontana; sono lievitate proprio sul punto più critico della picchiata, per cui non è più visibile né il ponte ferroviario, né quelli della strada nazionale sul Tevere e sulla Regghia. I piloti, che li hanno visti nitidamente al loro arrivo, ora possono solo immaginarli sotto la coltre di fumo. Per colpire ancora l’obiettivo dovrebbero addentrarvisi: un salto nel buio! Troppo rischioso! Occorre rinunciare a qualsiasi bersaglio grosso della strada nazionale.

Il capo-squadriglia comanda di ripiegare su un nuovo obiettivo di minore importanza, ma visibile: il ponte sulla Regghia, che collega la piazza alla Collegiata.

Otto bombe vengono sganciate dal secondo quartetto, sventrando e facendo saltare in aria il quartiere di san Giovanni.


Sono le 9 e 51.

La nube di polvere ha invaso tutto il centro storico; lassù, dalle carlinghe, non si vede più niente. Il tenente Jandrell capisce che la missione è compromessa. Si consulta con gli altri piloti.


Immagine 6: L’orologio di Ubaldo Gambucci si è fermato nell’ora della morte.


I pareri concitati per decidere sul da farsi, scambiati attraverso le radio, concedono un po’ di tregua agli umbertidesi: a terra chi può, ne approfitta.

Gli ultimi quattro “picchiatelli” debbono alleggerirsi del carico, ormai solo zavorra, che impedirebbe l’atterraggio alla base.

Si decide di mantenere come bersaglio il ponte della Regghia, fra la Collegiata e la piazza, che ancora si riesce ad intravvedere dall’alto.

Sempre meno convinti, i piloti si avviano a sganciare, quasi controvoglia, le loro appendici ingombranti.


Sono le 9 e 53.

Ormai il fumo e la polvere offuscano tutto, per cui il ponte di piazza non si vede più.

Il tenente Jandrell non sa più che pesci prendere. Al ritorno all’aeroporto da campo di Cutella, dovrà pur mostrare qualche scalpo nel carniere! Mica può tornare a mani vuote.

Non ha scelta: decide di puntare contro il ponte della Regghia che conduce a Santa Maria. Meglio di niente.

Il tenente Stubbs obbedisce al caposquadriglia: piomba verso l’obiettivo, ansioso di disfarsi del carico. Gli ordigni cadono davanti alla Collegiata, vicinissimi al bersaglio: uno rimane inesploso, mentre l’altro sfiora la sagrestia, sfasciandone una parte. Un cratere enorme si apre sulla piazza. Don Luigi (Cozzari), che ha appena terminato di recitare il Breviario davanti a Gesù Sacramentato, rimane ferito ad un piede l’arciprete. Anche i putti di stucco sull’ancona dell’altare maggiore sono danneggiati dalle schegge proiettate dentro la chiesa: uno è decapitato, uno è rimasto monco.


Spetta al tenente Wright e agli altri due piloti dare il colpo di grazia. Ma le ultime bombe centrano la casa in Via Roma, all’angolo di Via XX settembre, addirittura a quasi mezzo chilometro dall’obiettivo.


Immagine n. 7. Mosaico del bombardamento, foto di Roberto Balducci.


***Sotto le querce di Navarri

Eravamo nel corridoio della scuola elementare in Via Garibaldi, dove tutti gli scolari erano stati radunati per avere istruzioni sul comportamento da tenere in caso di bombardamento. La mia classe era arrivata dall’abitazione della maestra Locchi, dove era stata sistemata per liberare spazio per le truppe tedesche. Mentre il direttore parlava, all’improvviso si era sentito rumore di aerei che volavano bassi sopra di noi.

Da quel momento è successo il finimondo. Ogni maestra aveva riunito le proprie alunne, per farle tornare alle loro aule fuori della scuola, incitandole a camminare veloci, in fila indiana.

Appena entrate nella casa della maestra, un forte boato aveva fatto tremare tutto, mandando in frantumi la porta a vetri. Sorde alle raccomandazioni di non uscire, eravamo scappate fuori,

disperdendoci in tutte le direzioni. Mi sono accorta che un bambino più piccolo di me mi aveva preso per mano, come per chiedermi aiuto: ci siamo ritrovati soli, spaventati e piangenti.

Per istinto ho pensato di nasconderci sotto due piante grandissime – le querce di Navarri – lì vicine [nei pressi dell’attuale chiesa di Cristo Risorto]. Strisciando in mezzo al grano alto, verde e bagnato di rugiada, abbiamo trovato protezione sotto la loro chioma immensa. Ci siamo sdraiati all’indietro per osservare tutto quello che succedeva: gli aerei sorvolavano bassi verso il paese e dalla loro pancia a due a due cadevano le bombe, che vedevamo scendere, grosse e terribili.

Quando gli aerei se ne sono andati, ci siamo alzati. Quel bimbo ha lasciato la mia mano ed è scappato via, correndo dalla parte opposta.

Io dovevo attraversare il paese per tornare a casa mia, che si trova oltre il ponte del Tevere. Arrivata alla stazione ferroviaria, ho sentito gridare il mio nome: era mio fratello, di dieci anni più grande di me, che mi stava cecando. Piangendo, ci siamo abbracciati tanto forte. Quando ci siamo trovati ad attraversare la piazza, abbiamo dovuto passare sopra una montagna di macerie. Sebbene mio fratello cercasse di coprirmi gli occhi con una mano, ho visto sopra quei detriti uno scarpone con una calza grigia e dentro un pezzo di gamba.

Usciti da quell’inferno, siamo arrivati trafelati a casa, dove la mamma ci stava aspettando terrorizzata, ma piena di speranza di rivedere i suoi cinque figli.

Testimonianza di Paolina Corbucci Giannelli


Sono le 10 e 5.

La catastrofe è compiuta

Umbertide è stata colpita al cuore. 

Il rione di San Giovanni è stato ridotto a un cumulo di macerie.


Immagine 8: Disegno di Adriano Bottaccioli


   Gli aerei, prima di ripartire, vanno a scaricare degli oggetti luccicanti: sono i serbatoi della benzina. Infine, alleggeriti di ogni zavorra – forse anche dei pesi sulla coscienza – fanno un giro, tutti insieme, per riprendere quota. Poi, in fila indiana scompaiono verso Sud, oltre Montecorona. Il gioco a mosca-cieca è finito. Umbertide è ferita a morte.

   Da questo momento saranno ricordati come “I dodici apostoli”.

   Strani apostoli, che hanno compiuto la loro missione – di morte o di libertà? – lasciando 57 morti, 12 dispersi, un moribondo e migliaia di sopravvissuti con la morte nell’anima, disseminati lungo il calvario del rione di San Giovanni. 



  Sul diario di volo i piloti appuntano: 

“239 Stormo Wing Desert Air Force, 5° squadrone aereo.Operazione n. 225 del 25 aprile 1944 Una bomba ha mancato di poco la sezione centrale del ponte, verso Nord.Una bomba ha mancato di poco l’accesso est del ponte, verso Sud.Una bomba ha centrato i binari della ferrovia nella zona d’accesso est del ponte, interrompendo la linea.Le altre bombe sono cadute nell’area abitata ad ovest del paese, ad est del ponte.Lasciate sette case in fiamme.Colpi di contraerea leggera dall’aeroporto di Perugia [Sant’Egidio].Visibilità: foschiaTempo totale di volo: 26. 00 ore”.


Immagine 9: Diario di Bordo. Da Mario Tosti, "Il nostro calvario", Petruzzi Editore, Città di Castello, 2005


Questo è tutto per i tecnici della guerra: terribilmente poco per chi ha subìto, inerme, la loro esibizione.

Chissà se qualcuno di loro, durante il volo di ritorno al Campo base, avrà rivolto un pensiero a quelle formichine che adesso si stanno caoticamente incrociando, come impazzite, intorno alle coordinate dell’obiettivo!

Purtroppo la possibilità di uccidere a distanza, senza guardare negli occhi chi ti sta di fronte, dissolve il tenue residuo di umanità consentito dallo stato di guerra.

Naufraghi

La tempesta di deflagrazioni, fiammate e boati è cessata. Buio e silenzio incombono sul paese. La vita sembra finita.

Chi non ha perso i sensi tace, immobile, fino a quando non riacquista la coscienza d’essere vivo.


La consapevolezza 

   Chi può, comincia a muoversi tastoni: ombre mute ed incredule tra nuvole di polvere! 

   I lamenti dei feriti si insinuano nella sordità delle orecchie stordite: sono il primo segno di ripresa della vita. Ci si rende conto di non essere rimasti soli. 

   C’è bisogno di aiutare, di sapere: la vita deve continuare! 

  Si azzarda un lamento sussurrato – “aiuto!” – dando conferma dell’esistenza di sé stessi.     Si prende coraggio; si chiede aiuto a voce più alta, sempre più alta; le suppliche si rafforzano reciprocamente con le altre provenienti dal buio tutt’intorno. Diventano grida: un caotico coro di grida.

   La polvere si posa lentamente, lasciando il posto al chiarore che scende dal cielo e svela contorni sempre più strazianti della catastrofe: il cuore di San Giovanni è collassato in un paio di metri di detriti! Solo qualche guglia di muro è riuscita ad opporsi alla forza di gravità e lascia intuire le case dove, solo qualche minuto prima, la vita fluiva.

   Come topi dalle tane, i sopravvissuti emergono dall’inferno: la vita, incredibilmente, è riuscita a resistere. Gli uomini incolumi portano aiuto a chi è ferito, sepolto o solo in difficoltà. Ai lamenti ed alle grida d’aiuto, si aggiungono le voci dei soccorritori. 

   Chi non è in condizioni di portare aiuto agli altri, perché ferito o fuori di sé, cerca di allontanarsi il più possibile da quel luogo di morte.

   Un residuo di vita singhiozza, convulso, nel cratere: spettri, bianchi per la polvere e per il terrore, fuggono alla ricerca di sé e dei propri affetti; s’intersecano con chi, per lo stesso motivo, arriva correndo dentro la nube che ha inghiottito la propria casa. 

   Alle richieste reciproche ed ossessionanti di notizie, corrispondono silenzi o risposte vaghe, confuse, spesso sfuggenti, bugie pietose che prorogano per un po’ la speranza. Le urla si smorzano sempre più in parole sottovoce, sussurrate.

Con il passar del tempo, il flusso ed il riflusso della gente verso il cratere diventano una marea: si vuole vedere, sapere, portare aiuto, in qualsiasi modo.

  L’immensa nuvola di polvere, sospinta dal vento, si è diffusa anche sopra la gente fuggita verso il Tevere, a valle del ponte: non ci si riconosce l’uno con l’altro, per la foschia ed il terrore.


Immagine 10. Sullo sfondo via Guidalotti colpita


   Rassicurati dal silenzio dei motori e delle mitraglie, con il cuore in gola, tutti lasciano il patóllo e si avventurano verso il centro. Trovano un silenzio tremendo ed assordante che incombe sul frenetico lavoro dei soccorritori. La ragione è subentrata al terrore. In pochi minuti si rendono conto di quante persone che, fino a poco prima, vivevano accanto a loro, sono spirate.


  Man mano che ci si avvicina alla piazza, ancora avvolta nel fumo, la dimensione del disastro appare agli occhi di tutti: un massacro, tanti corpi bianchi di polvere, lacerati. Una vista atroce. Si rimane pietrificati davanti a tale tragedia!

È tutto il paese ad essere stato ferito a morte! Il quartiere di San Giovanni è squarciato!


I soccorsi all’interno del cratere

Al silenzio angosciante dei primi istintivi soccorsi, è subentrato un nuovo caos: ordini di chi organizza, suppliche di chi aspetta aiuto, richiami strazianti di chi è disperato. Brulicano di soccorritori le macerie, che celano altri morti e sepolti vivi. Si scava con le mani, alla ricerca di qualcuno in vita.

Le grida ed il vociare caotico si stemperano di nuovo in un brusio sempre più sommesso, fino a diventare silenzio assordante, agghiacciante, man mano che ognuno prende coscienza della dimensione della propria sventura. Non si trova la forza per imprecare al proprio dolore, né parole per consolare quello degli altri.

Con barelle di fortuna i corpi sono portati alla Collegiata, che è stata sfiorata.

Si cerca di fare spazio all’interno della chiesa, spostando le panche. Le salme sono adagiate sul pavimento fra le due porte, coperte da panni bianchi.

La chiesa della Madonna della Reggia, protettrice del paese, è diventata la meta di tutti: dei morti che, allineati l’uno accanto all’altro sul pavimento, sembrano trovare reciproca consolazione nello strazio comune; dei vivi, che sperano di non scoprire il familiare o l’amico fra quei corpi anneriti dal fuoco, imbiancati dalla polvere, sfigurati nell’ultimo gesto per respingere la fine. Si affannano fra i cadaveri soprattutto quelli che hanno notizie o sospetti della presenza dei loro cari nei punti colpiti.

Gli sforzi profusi dai soccorritori danno i primi frutti: verso l’una rivedono la luce i feriti rimasti più in superficie.


Immagine 11: La sacrestia mutilata


Dall’anfiteatro delle colline, che degradano a conca verso la vallata, la gente ha assistito sgomenta alla tragedia. Paradossalmente il terrore consapevole di chi ha visto da lontano, ha avuto l’aggravante della razionalità rispetto a quello ancestrale di chi, direttamente coinvolto, non capiva niente.

La notizia del disastro si è sparsa in un baleno nei paesi e nelle città vicine.

Allo sgomento dell’impotenza subentra l’istinto di solidarietà verso il paese ferito. Da tutti i dintorni si organizzano aiuti.

Solidarietà ed egoismo

La solidarietà, rinvigorita dalla disperazione o dallo scampato pericolo, pervade la comunità ferita: ci si aiuta, ci si consola, ci si incoraggia. Si aprono le case, le dispense; si preparano giacigli sotto ogni tetto. L’umanità oltraggiata risponde compatta alla disumanità della violenza!

C’è anche chi sta pensando di approfittare della sventura degli altri: si sono già messi in moto gli sciacalli, che riempiono balle di roba da trafugare. Lo sgomento per tanta sfrontatezza ha creato una specie di psicosi collettiva che favorisce lo spargersi di voci che sembrano proprio inverosimili o, quanto meno, esagerate. Addirittura si sostiene che qualcuno abbia rubato le fedi ai cadaveri in Collegiata.

È stato improntato un servizio d’ordine, sia per tutelare l’incolumità delle persone, sia per prevenire abusi. I volontari della Milizia controllano chi entra ed esce dai luoghi colpiti

Lo sfollamento

Appena ritrovati i propri famigliari, occorre cercare una sistemazione fuori del paese, per passare la notte e per sopravvivere nei prossimi giorni, fino a quando – chissà quando? – la vita non potrà rinascere, se rinascerà.

Una moltitudine disperata si riversa nelle campagne: è un esodo biblico!


La seconda incursione

Nel pomeriggio ritorno dei dodici apostoli per dare il colpo di grazia

   La poca gente rimasta in paese, perché impegnata negli scavi o nel portar via dalle case l’indispensabile, è con le orecchie dritte. 


  Sono le 16:10

   In piazza, d’improvviso, s’innesca un fuggi-fuggi: al punto telefonico nella garitta del passaggio a livello, da Perugia è giunta la notizia dell’arrivo di un’altra incursione. Dopo poco, alle 16 e 25, suonano le sirene a Città di Castello.

   L’allarme si diffonde tra la gente, da persona a persona.

   Tutti scappano come fulmini verso il luogo sicuro più vicino, in ogni direzione: la Caminella, il mattatoio, l’ospedale, la fornace, i campi verso il Tevere.

   Stavolta, dopo il disastro della mattina, nessuno sottovaluta il pericolo. Anche i soccorritori sono costretti a scappare.

   Per i sepolti vivi è il colpo di grazia: perdono ogni speranza di essere salvati!

   Qualcuno ha il coraggio di rimanere per approfittare del silenzio, che potrebbe far percepire altre tracce di vita. Una bambina ed un adulto sono estratti dalle macerie, incolumi.

   Ricomincia la tempesta: uno per volta, gli aerei si staccano dal cerchio e mitragliando, sganciano bombe, in picchiata, per colpire il ponte, ma senza successo. Demoliscono invece il Palazzo Vibi, fra Via Cibo e il Tevere, e la casa di Camillo, sulla riva destra del fiume, all’inizio di Via Fracassini.



   Dopo questo secondo attacco, i piloti appuntano nel diario di volo il risultato apparso ai loro occhi: la strada è stata centrata due volte ad ovest del ponte ed una volta ad est; altri tre colpi sono caduti appena a nord rispetto al ponte, sul pietriccio; tutti gli altri non hanno colpito il ponte stradale, ma l’hanno avvolto di fumo e polvere, senza infliggere danni.

    Durante il ritorno al campo base, si consolano mitragliando un autocarro, che prende fuoco, ed un locomotore elettrico: è il contentino regalato alla stazione di Pierantonio.

Visibilità: cattiva. Nessuna contraerea sopra l’obiettivo. 

Atterraggio: ore 17.40.  

Tempo totale di volo: 31.00 ore.

La catastrofe è compiuta!


Soccorsi da Città di Castello


   “Improvvisamente un capitano, il comandante dell’ospedale, si avvicina alla Sorella Ispettrice Malwida Montemaggi, che era stata precettata in servizio insieme con altre infermiere volontarie della Croce Rossa: “Dovete venire con noi, in due, per una missione esterna”. La Madre Veronica fa riempire le borse di servizio con materiale da medicazione, di nascosto. Si aspetta un’autoambulanza tedesca. Neppure una parola sulla destinazione, ma è scontato si tratti di Umbertide.

   Sedute sul cassone del camion adibito ad autoambulanza, accanto a due soldati tedeschi – un altro è alla guida – due crocerossine. Non hanno parlato mai durante il viaggio, incredibile per la situazione delle strade e per il timore di altre incursioni. Sono in vista del paese. Umbertide è avvolta come in una nube di pulviscolo; la tragedia è leggibile anche da lontano. Case sventrate, in modo da non ricordare che possano essere state abitazioni. Umbertide è morta. I soldati scendono sulla piazza della Collegiata e fanno segno alle crocerossine di entrare; loro rimangono fuori. Le volontarie trovano, allineati entro la bella chiesa, i morti, che sembrano solennemente pronti ad un ultimo appello. Irreale che tanti abbiano raggiunto insieme il terrificante appuntamento.

   Alcuni corpi sono dilaniati; altri sembrano dormire; molti conservano negli occhi ancora aperti il terrore. Un silenzio gelido, grande, che rimane dentro. Tutto avviene a cenni, senza parole; anche i riconoscimenti, le preghiere.

   La gente di Umbertide sente il peso di ogni parola e quel silenzio straziante è fierezza, è rabbia, è un modo completo di esprimersi che stabilisce una sorta di parentela con ciascuno, un affetto incancellabile.

   Poco possono fare le due crocerossine: ricomporre meglio i morti, abbassare le palpebre di chi ha visto la morte. Decidono con un’occhiata che è giusto lasciarli con le braccia tese lungo i fianchi, nella fierezza dell’“attenti”, senza sovrapporre le mani sull’addome, nella postura rassegnata di chi è spirato per morte naturale.

   Ci si abbraccia con i superstiti senza parlare. Quelle file di morti, quel silenzio intraducibile è la sola cosa importante”.

Testimonianza di Eliana Pirazzoli 


Soccorsi da Perugia


Al calare del sole, è arrivata una squadra di vigili del fuoco da Perugia con due mezzi militari; sui banchetti laterali sotto il telone13, sono seduti anche dei ragazzi del “Servizio del Lavoro”, aggregati al 51° Reggimento fanteria di stanza in Piazza Biordo Michelotti.

***“Il miagolio di un gattino da sotto le macerie

Il paese è quasi deserto. Le persone rimaste riprendono a scavare alla ricerca di sopravvissuti nei punti che si ritiene celino altre persone.

In via Guidalotti hanno trovato il cadavere della mamma del veterinario.

Da più parti si è aggredita la montagna di sassi del Borga di san Giovanni da cui saliva la voce di Antonio Feligioni, che segnalava la presenza di altri compagni di sventura nell’androne di fronte alla casa di Ulisse.

Una delle squadre di pompieri venuti da Perugia ha cavato viva dalle macerie la moglie dello stalliere e cocchiere di Andrea del Sellaro. Penetrando sotto le macerie ha trovato la Mimma (Coletti), abbracciata alla mamma della Peppabionda, ormai entrambe morte. Il sasso in bocca della Mimma, la mamma di Peppe Coletti, conferma che non è morta sul colpo e che le sue grida d’aiuto non erano state frutto di suggestione.

Un’altra squadra, che avanza dall’arco di Via Mancini, ha fatto un passaggio per strisciare sotto le macerie.

A notte fonda, anche perché era cominciato a piovigginare, avevano deciso di desistere, quando hanno sentito un miagolio: “Sarà un gattino”. Il vigile del fuoco nella posizione più avanzata, lo sente di nuovo ma più flebile. “È solo un gatto. Sarà bene andare a dormire per riposarci”, suggeriscono da dentro il pertugio. Il tenente – uno del Nord – che è in piedi fuori della galleria, ama gli animali: “Togliamoci il pensiero, proviamo ad andare avanti per un altro po’”. “Ormai andiamo a vedere”, concordano tutti. Di nuovo si sente distintamente una specie di lamento. Tutti riprendono il lavoro con frenesia: nessuno ormai se la sente di desistere dalla ricerca.

Dopo qualche minuto, dall’estremità interna del cunicolo il primo vigile esclama: “È una bambina!” La liberano. Alla luce delle pile la strisciano, piano piano, di mano in mano. Quando, dopo diversi minuti, riescono a portarla fuori fra la commozione generale. Lei è tutta calcinata, con un dito di polvere dappertutto. Piagnucola. I calcinacci le si sono appiccicati sulla faccia. Provvedono dell’acqua. Le lavano gli occhi e poi il viso. “Mamma ... ho sete” dice la bambina, che riesce a stare in piedi. La mamma è sepolta vicino, senza vita.

Tutti sollevati, quasi euforici nonostante le decine di morti nei dintorni, vanno a dormire nella sala del consiglio comunale, con una coperta per terra.

Sono passate le due di notte”. Non si sentono altri segni di vita. Ma in qualche punto si continua a scavare per tutta la notte, senza interruzione. Inutilmente: San Giovanni è di- ventato una tomba senza speranza.

Si contano 42 morti, 27 dispersi e tanti feriti.


26 aprile

Continua lo sfollamento.

La fuga di ieri, improvvisata, è diventata un esodo meno caotico. Uno spettacolo tre- mendo si presenta agli occhi di tutti: lunghe file di carri tirati da buoi o da cavalli, carretti spinti a mano, con sopra masserizie buttate su alla rinfusa, si snodano verso le campagne.

Persone con il volto segnato dal dolore, dalla stanchezza, dalla paura, seguono quei carri; li spingono, con il passo lento e l’aria vacua di chi ha toccato il fondo della disperazione. Non parlano.

È il funerale del paese.

***Arrivo del Vescovo di Gubbio.

Il Vescovo, venuto da Gubbio, per essere vicino alla comunità umbertidese, vorrebbe celebrare un funerale solenne per i poveri morti. Ma ciò non è possibile perché la situazione non consente assembramenti. Rimane in tasca l’appunto con le parole che avrebbe voluto dire. Al prelato non resta che piangere e pregare sulle salme di tanti figli e figlie che aspettano pietosa sepoltura.

Visita le zone colpite, benedice i morti che giacciono sul pavimento della Collegiata e della cappella del Cimitero, oltre quelli che vengono estratti dalle macerie.

***Si scava ancora

Il paese è quasi deserto. Le poche persone rimaste scavano – ormai senza speranza – nei punti che si ritiene celino altri corpi.

***Una goccia nel mare

Ieri sera Radio Londra ha dato la notizia del bombardamento di Umbertide: così ne sono venuti a conoscenza anche i nostri soldati che combattono lontano contro i tedeschi. Con poche parole il mondo ha liquidato una tragedia immane.

Oggi neanche una riga, naturalmente, nella stampa di regime: l’attenzione del “Corriere della Sera” è stata riservata all’incontro di Mussolini con Hitler, ai bombardamenti della Luftwaffe su Napoli, alle minacce di ritorsioni sui “ribelli”, alla fame sofferta dall’Italia invasa dagli anglo-americani definiti “locuste”.

Neanche ne “La Nazione”, che viene venduta localmente, compare alcun accenno al disastro. Quello che si può comprare per 50 centesimi, se mai passasse per la testa la voglia di leggere un giornale, è un foglio di carta che si ostina a descrivere la realtà sognata dal regime.

Il nostro calvario non fa notizia; le vittime sono soltanto una frazione insignificante rispetto ai milioni di altri sventurati morti in modo ancor più atroce - ammesso che abbiano senso graduatorie di tal genere. Non se ne parla, perché nessuno sappia niente di preciso: il massacro non è – semplicemente – avvenuto.

Non debbono nemmeno sospettarlo i prossimi sventurati, su cui gli stessi aerei o altri, che continuano a passare minacciosi sopra le nostre teste, stanno per riversare i loro carichi senza anima.

Vorremmo che “I dodici apostoli” ed i loro colleghi, che debbono svolgere il loro compito ad alta quota – con un distacco che non favorisce la pietà – scendessero un attimo fra le rovine spettrali di San Giovanni; passassero a dare un’occhiata alla fila

impressionante di corpi straziati, in Collegiata o al Camposanto. Dovrebbero scambiare qualche parola con le vittime vive: con il sor Gigino (Ceccarelli) che ha perso tutta la famiglia, o con l’altro sor Gigino (Ramaccioni), il Commissario, diventato il bersaglio della popolazione per il mancato allarme. Vorremmo gridare alle prossime vittime ignare di non illudersi che la loro mansuetudine sia un efficace antidoto alla guerra. La pace non si prenota od eredita: si conquista e si difende ogni giorno.

Purtroppo nessuno può ascoltare la voce di dolore che si leva al cielo: si è soli, quaggiù, distrutti fisicamente e psicologicamente. Bisogna trovare la forza di ricominciare, ancor più disarmati del giorno prima nei confronti di questa guerra maledetta che continua pervicacemente e dissennatamente a portare solo disperazione, anche a chi la sera gioisce per essere riuscito a dar da mangiare ai propri figli.

Dovrà essere indispensabile il sacrificio di tanti borghi, come quello di San Giovanni, perché la guerra finisca? Si persevererà ancora, a testa bassa, fino a quando l’ultimo uomo – il vincitore? – potrà vivere in pace, da solo, con la morte nell’anima?

Per evitare la totale distruzione reciproca delle due parti nemiche, viene quasi da sperare che costruiscano davvero la super arma di cui si vocifera, per farla finita prima: ma la pace – se e quando fosse partorita da una violenza ancor più micidiale – sarebbe fondata sulla paura e sull’odio. Non potrebbe essere che una pace effimera o superficiale.

Lo strazio dei morti allineati è troppo incomprensibile, insensato, per non insegnare a tutti, definitivamente, che la guerra è sempre una sconfitta per l’umanità intera. La gente non potrà dimenticare ed avere alibi. Ed allora potrà addomesticare i Kittyhawk – i veri falchi pellegrini - nelle proprie piccionaie.


27 aprile.

Alla ricerca di sopravvissuti.

Gli scampati si aggirano ancora tra le rovine, smuovendo i sassi e chiamando i loro cari, tuttora sepolti là sotto. È uno spettacolo straziante, che stringe il cuore.

La gente recrimina che non è stato fatto suonare l’allarme. Dice che la colpa è dei fascisti del Comune.

Addirittura si è sparsa la diceria che non hanno dato l’allarme perché gli addetti alla guardia di Romeggio erano andati a mangiare le fave in un campo vicino. Le accuse mirano al Commissario, che non si fa vedere in giro. La verità non la conosce nessuno.

***

Dalle macerie vengono estratti altri cadaveri.

Oggi hanno ritrovato Galeno, il barbiere all’angolo della Piazza verso la casa del prete. È steso, riverso, con la mano sulla nuca ed il braccio irrigidito, come per proteggersi la testa dal crollo del suo salone.

Accanto a lui giacciono i due apprendisti adolescenti. Li hanno ritrovati tutti insieme, sotto un arco nel retrobottega.

Il roscino, Pierini, il più giovane dei due, è intatto: forse è morto soffocato, rannicchiato sotto il tavolino dove custodiva i libri di Salgari che erano la sua passione. La tigre di Mompracen, la perla di Labuan, Yanez, la giungla, la Malesia popolavano i suoi sogni. Eppure, aveva alzato subito la mano, abbandonando la scuola, quando il maestro Montagnini aveva avvertito la scolaresca che il barbiere cercava un aiutante: le botteghe da barbiere sono sempre piene di giornali. In questi due giorni il maestro ha fatto di tutto fino a quando non ha trovato una cassa ben fatta; i genitori possono buttar via le tavole ed i bandoni che avevano rimediato. Il vestitino nuovo è stato confezionato.

L’altro, Ciocchetta, ha finito tra i sassi il destino di ballerino che gli avevano pronosticato, per essere stato concepito dai genitori al ritorno da una festa da ballo.

Hanno disseppellito anche il corpo del cliente forestiero che con tanta premura era stato accolto.

Hanno estratto i corpi dei Barbagianni, marito e moglie, abbracciati, senza vita. È stato il figlio Pietro a trovarli, dopo aver spalato per un giorno intero.

Sono riusciti ad estrarre dalle macerie anche la Giovannina (Pambuffetti): bionda, i fiocchini celesti sui capelli, un vestitino nero di velluto, una camicetta bianca, il gilè di merletto.

Si trasportano al cimitero altre salme, man mano che vengono portate alla luce: uno o due cadaveri per volta, per i quali basta un carrettino a mano. L’ingegner Pucci si presta anche a questa triste incombenza. Le vittime sono sempre meno riconoscibili: soprattutto le vesti forniscono qualche indizio.


***La pietà della sepoltura


Un cavallo arranca sul tornante del camposanto, verso la fine del calvario; sul carro gli stinchi di diversi morti, a sbalzo sul pianale, sobbalzano qua e là per le asperità della strada. Solo lo scalpitare degli zoccoli e lo stridìo delle ruote sulla “breccia” ricordano che non si tratta di un terribile sogno.

Con un carrettino spinto a mano, il maestro Bernacchi con i suoi familiari porta al cimitero il corpo del babbo.

I morti si aggiungono a quelli che attendono il proprio turno per la sepoltura; sono composti dentro le cappelle nell’emiciclo a sinistra dei cancelli d’ingresso, quasi incastrati l’uno accanto all’altro. Taluni sono dentro la camera mortuaria o fuori all’aperto. Al Camposanto c’è il tutto esaurito!


***

Occorrono bare.

In paese le costruisce Gaetano, il falegname, che lavora un po’ di tutto, comprese le

casse da morto. Ne ha pronte alcune, ma certo non bastano. È andato a prenderne altre verso Trestina e Città di Castello. Le rimanenti – tante! – Gaetano le costruisce alla meglio, con quello che può rimediare. Usa lo stagno a suo tempo nascosto alla requi- sizione dei metalli. Finita la lamiera zincata, impiega quella di semplice ferro. Esaurita anche questa, lascia le bare nude.

Anche i morti sono nudi: neanche li vestono, ma li avvolgono in lenzuoli.


28 aprile

Incursione aerea a Trestina.

Nel pomeriggio è stata colpita l’area della stazione Danneggiato materiale ferroviario e una locomotiva***


Fine della spia contessa ballerina (29)

È stata fucilata a Colle Antico, sulle montagne di Pietralunga, Maria Keller di Schleitheim, detta Marion Gray, discendente da una nobile famiglia ungherese.


Maria-Marion, donna bellissima, aveva girato il mondo come attrice di teatro e ballerina di tabarin. Una femme fatale dalle gambe lunghe e affusolate e dallo sguardo magnetico.

Ristretta nel carcere femminile di Perugia per spionaggio contro la Francia, era entrata nel mirino di Armando Rocchi, capo dei fascisti di Perugia. Si racconta che ne fosse divenuta l’amante e inviata tra i monti dell’eugubino-gualdese per scoprire le basi dei partigiani umbri.

Scoperta dalle formazioni marchigiane, è stata condannata a morte da un tribunale partigiano: una raffica di mitra ha posto fine alla vita di Maria Keller. L’esecutore della pena è stato Max, già arruolato nella Wermacht a 16 anni, che ha abbandonato l’esercito tedesco quando ha saputo che i suoi familiari ebrei erano stati bruciati nei forni crematori.


29 aprile

È stato ritrovato Luciano (Bebi).

Diciassette anni, studente alle magistrali di Gubbio, era con il torace dentro l’impastatrice del pane, le gambe penzoloni, decapitato.

Quando gli amici l’hanno saputo – “Hanno trovato Luciano ... è in Collegiata” – sono andati verso la chiesa ma sono restati fuori; non l’hanno voluto guardare. Non hanno la forza di vedere com’è stato ridotto il loro compagno.

Proprio lui, che era cresciuto nell’ovatta: figlio unico, benestante; giocattoli e cibo in abbondanza. Le premure dei famigliari l’avevano reso pauroso, pavido: non aveva il coraggio nemmeno di fare le battaglie con le zolle d’erba sulla collina di Romeggio. Di fronte alle bombe vere, tutti i suoi amici se la sono data a gambe. Lui invece no! Voleva dimostrare che era forte. È morto è morto da eroe! Certamente ora sorriderà al ricordo dei tanti scherzi di cui è stato vittima e delle innumerevoli prese in giro per quella “elle” che non riusciva proprio a pronunciare: “Ho prenotato “un pacco” al teatro....


Con Luciano hanno estratto le sue cugine, la Maria e la Teta; vicino a quest’ultima c’era la figlia Annina.


***I

l paese è sempre più deserto.

Anche chi è obbligato a venire, preferisce girare alla larga attraverso i campi, di periferia in periferia, senza il coraggio di avvicinarsi allo scannatoio.

I vigili del fuoco sono tornati a Perugia, perché ormai si tratta solo di cavare cadaveri. Hanno consegnato all’Ufficio economato del comune di Città di Castello alcuni oggetti rinvenuti durante i lavori di rimozione delle macerie: un occhialino per signora montato in argento, due fedi d’oro, un anello d’argento. Gioielli rimasti soli, orfani anche loro, senza anima.

29 aprileIl primo parto dopo il bombardamento

Ieri è nato Bartolini Giorgio di Verna. Dopo due ore dal parto in casa, la mamma è sfollata in campagna con lui in braccio per paura dei bombardamenti.


***

Il primo matrimonio

Oggi a Pierantonio sono state celebrate chiesa le nozze di Rosini Domenico con Ricci Annunziata e di Cerbella Alberto con Floridi Emma a Montecastelli.


***

Il resoconto di un bambino

Uno scolaro della scuola elementare di Montecastelli ha commentato nel suo quaderno il bombardamento a cui ha assistito.“Questa mattina la signora maestra ci ha dato una notizia brutta, ci ha detto che finisce la scuola oggi. A me dispiace molto perché ho fatto molte vacanze ...”

Qualche giorno prima aveva scritto:“... hanno bombardato Umbertide. Io ho visto gli apparecchi che andavano giù a picco e sganciavano le bombe. Ho le fiamme del fuoco. Quanta gente sarà sotto le macerie. Io pensavo tanto alla mamma e alla sorella erano all’ospedale e pensavo che bombardavano lì; la mia sorella non poteva scappare perché gli si riapriva il taglio. Invece è scappata dall’ospedale fino a Bertanzi è scappata da lei. La sera ci sono ritornati a bombardare ... Io pensavo quanti saranno i morti. C’erano delle famiglie intere morte sotto le case crollate ... chissà quanti bambini che piangono e ricercano i genitori i fratelli le sorelle che saranno nelle macerie. E quanti genitori ricercheranno i figli e piangeranno tanto.”

La maestra Maria (Migliorati in Bonucci), ha portato il quaderno nel suo archivio. Intuisce che in questi tempi la storia non si studia ma si scrive.

Archivio privato, maestro Umberto Bonucci


30 aprile


Nuovo bombardamento ad Umbertide.


È domenica. Nella nuova base di Sinello, dove è stata trasferita quella di Cutella, non si può volare per il vento troppo forte, che sembra intenzionato a soffiare per tutto il giorno.

Da un altro Campo hanno organizzato una missione per mettere fuori servizio il ponte sul Tevere. Gli Alleati hanno perso la pazienza: vogliono assolutamente interrompere la Via Tiberina ad Umbertide.

Stavolta ci sono riusciti. Il sole era quasi sulla verticale quando sono arrivati degli aerei. Facendo la picchiata da Monte Acuto, alla seconda ondata, hanno fatto saltare l’arcata del ponte verso Città di Castello.


Immagine 12. Arcata ricostruita nel 1949


***Una tragica contabilità.


Numero di vittime umbertidesi nel corso del mese di aprile: Due militare e 59 civili; 11 dispersi.



Fonti:

Il testo e le fotografie, salva diversa indicazione, sono tratti da: Mario Tosti, "Il nostro calvario", Petruzzi Editore, Città di Castello, 2005

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