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2. L'economia e la libertà di fiera

a cura di Fabio Mariotti


L’economia del territorio di Fratta nel XV secolo è basata su una modesta attività agricola e su una fiorente attività artigianale. Già nei primi del Quattrocento assistiamo a timidi insediamenti stabili in campagna di lavoratori agricoli che si recano a lavorare terre alquanto distanti dal borgo. Terre via via "rancate", cioè messe a coltura.

Ma i tempi sono ancora insicuri, la pericolosità direttamente proporzionale alla distanza dalle mura del castello. II passaggio di eserciti che razziavano il bestiame e le colture, insieme a bande di malviventi rendevamo molto rischiosa la coltivazione della campagna. I lavoratori agricoli, quindi, non potevano produrre grosse quantità dei vari generi. Solamente due secoli dopo, in pieno Seicento, la coltura del grano aveva ancora una rendita di tre o quattro parti contro una di seme seminato.
L’attività artigianale nel castello di Fratta era, invece, più progredita e produttiva, regolata anche negli statuti del 1362. Era un'economia prevalentemente corporativa, a compartimenti stagni, con ogni Arte strettamente osservante di quelle regole che si era data con il proprio ordinamento, comprensivo anche delle pene per i trasgressori. Ma era l'aspetto religioso il collante che univa i componenti.
La produttività degli artigiani era soltanto sufficiente ai loro immediati bisogni, ma a volte poteva superare il limite dello stretto necessario e dar loro qualche soddisfazione in più.
Notevoli risultati davano le fornaci di laterizio che producevano materiali da costruzione. Altre piccole attività, con laboratorio e bottega annessi, sfornavano vasellame di terracotta d'ogni genere, necessario alla vita quotidiana della famiglia del borgo e di quella contadina.
Vari molini da cereali e da olio, avvalendosi della forza motrice dell'acqua dei fiumi e dei torrenti, occupavano un discreto numero di persone. C'era poi la lavorazione dei panni di lana, per mezzo della gualchiera e la rifinitura di prodotti in metallo che per l'affilatura usava ruote in pietra, anch'esse mosse dall'acqua. Tutti questi meccanismi si trovavano all'interno dei maggiori mulini ed utilizzavano la stessa acqua che muoveva le grandi macine dei cereali.

La gualchiera. L’arte dei panni di lana
Anche in Fratta si esercitava l'arte della lana, seppur per un
prodotto minore che doveva soddisfare soltanto i bisogni
del luogo. Il panno lavorato serviva per cucire i vestiti di uso comune, indossati dalla maggior parte degli abitanti,
quasi tutti poveri.
La lavorazione era possibile in quanto nei maggiori mulini
c'era sempre la "gualchiera", meccanismo fornito di grosse
"martelle" di legno che, mosse dall'acqua della diga, battevano la lana opportunamente trattata (acqua bollente
e un qualche collante). Probabilmente, si trattava di una postazione per ogni mulino, locata a terzi per più anni.
In un atto notarile del 12 novembre 1464 si parla del
“Mulino dei Calvi” con la gualchiera ad esso annessa che
serviva a "gualcare i panni di lana": si trovava in aderenza
a questo molino, era affittata tre anni. La notizia dell'esistenza,
vicino a Fratta, di tale gualchiera, e fuso per cui serviva, sono
le notizie più antiche sull'argomento.

L’insieme delle altre Arti fabbricava gli oggetti necessari alla vita della collettività; erano fabbri, falegnami, magnani, pittori, sarti, panacuocoli (fornai), indoratori.

Tutte persone che oggi chiameremmo operatori economici ed avevano molto spesso un grande limite nella difficoltà di reperire i capitali necessari. Non essendoci ancora istituti di credito come intendiamo oggi, dovevano far ricorso, in caso di necessità, al prestito dei "banchi" degli ebrei. A Fratta ce n'erano una ventina ed alcuni di questi esercitavano appunto l'attività di banchieri. Sebbene avversati dalla popolazione e dalla legislazione della città di Perugia valida anche in Fratta, riuscivano sempre a svolgere il loro lavoro in senso positivo e la stessa comunità perugina faceva ricorso alla "prestanza" ebrea in caso di bisogno. Obbligati a portare un disco giallo sui vestiti, esclusi dai pubblici uffici, era negata agli ebrei anche la possibilità di acquistare beni immobili, di fabbricare carte da gioco e dadi. Non restava loro che dedicarsi ai prestiti su interesse e lo studio della medicina.

Il commercio del cuoio
Era molto praticato nella nostra Fratta, come nell'alta valle del Tevere e nel Perugino.
II grande commercio del cuoio aveva la sede principale, per il centro Italia, nelle città di Pisa e di Ancona. Pisa lo importava dalla Spagna (da Cordova, pelli cordovane), dalla Francia meridionale e dal Maghreb (Tunisia, Algeria e Marocco). Ancona lo importava invece dalla cosiddetta Morea (Medio Oriente), dalle isole dell'Egeo e dai Paesi rivieraschi del Mar Nero.
Da queste due città poi, a mezzo di grandi carri a quattro ruote, il cuoio arrivava a Perugia (via lago Trasimeno e via Fabriano). Qui si riforniva Fratta in limitate quantità, incrementate dalla stessa merce proveniente da Città di Castello, i cui mercanti erano direttamente collegati con le "strade del cuoio" marchigiane.


Il commercio del "bambage"
Anche il bambage (o bambagio) arrivava dai Paesi del medio oriente (Turchia, Cipro, Siria, Egitto), con le navi fino ad Ancona; poi i mercanti lo introducevano nel territorio perugino. Con il bambage, sottoprodotto del cotone, si fabbricavano veli da donna per la testa, per il collo e per le spalle.
Coloro che trattavano tale prodotto erano detti "bambagiari" e facevano parte dell'Arte omonima. Avevano botteghe per commerciare sia il bambage puro che i suoi derivati, quali ad esempio le passamanerie, vendute dai merciai.


L’Arte della merceria
All'Arte della merceria erano iscritti coloro che commerciavano in generi relativi soprattutto all'abbigliamento: filati per cucire (vengono nominati "refe"), gomitoli e matasse, fazzoletti (per la testa, il collo, le spalle), veletti (per cappelli), "camicie", calze di lana, cappelli, nastri d'ogni tipo, spille, orecchini, aghi (fatti a mano) e quant'altro relativo al vestire. Non troviamo fazzoletti per il naso (ancora da inventare), maglie (si confezionavano in casa, sul telaio domestico), giacche, pastrani e mantelli (li cuciva il sarto).

Non esistevano però botteghe specializzate in un unico tipo di merce. Era facile quindi trovare, in quella del merciaio, stoffe, paludamenti (per l'addobbo di chiese, tendaggi per la casa), ma anche cera, candele, "facole", radici saponarie.

L’Arte della "spetiaria"
Chi esercitava l'Arte della spetiaria aveva una bottega, chiamata anche aromataria, dove vendeva i generi che anche oggi chiamiamo spezie, ma con una gamma più vasta, essendo maggiore l'uso di tali generi. Molti servivano per la farmacopea. In queste botteghe, comunque, molti prodotti esulavano dal campo speziario, comprendendo i generi più disparati, anticipando i bazar ed i moderni supermercati.

I calzolai
C'erano, nel Quattrocento, in Fratta, diversi calzolai (calceolarius) iscritti alla relativa Arte e semplici ciabattini. L’attività dei calzolai consisteva nel costruire e vendere le scarpe, per cui avevano bisogno di comprare cuoio, pellami ed attrezzi d'uso.
Il ciabattino (sutor), più semplicemente, si adattava ad accomodare le calzature, senza entrare nel commercio delle stesse.


Nell'archivio storico comunale esiste un contratto del 4 settembre 1448 con il quale il padre affida il figlio di minore età ad un calzolaio per imparare il mestiere. Il ragazzo doveva andare a vivere in casa del calzolaio il quale, a sua volta, si impegnava a formarlo e a dargli vitto e alloggio. Il ragazzo è Mariotto, figlio di Domenico di Ercolano da Pietramelina; il calzolaio è Nardo di Francesco, di Fratta.
Domenico di Ercolano si impegna a far restare Mariotto per un anno presso Nardo di Francesco e di non mandarlo da altri calzolai. Garantisce che Mariotto sarà sempre sottomesso e obbediente come deve comportarsi ogni buon discepolo.
Nardo, di sua parte, si obbliga ad istruirlo nell'arte della calzoleria, a dargli un salario di tre fiorini e mezzo per tutto l'anno, oltre il vitto e l'alloggio.

Le monete
Nel Quattrocento, nell'Italia centrale si usavano, per i grandi importi, monete d'oro, fiorini e ducati, insieme ai loro sottomultipli e alle tante monete dei vari Stati esistenti.
Il fiorino veniva rapportato ai bolognini (moneta bolognese di piccolo taglio). Se era integro (cioè di giusto peso, non limato per appropriarsi di una parte del suo oro come spesso accadeva), valeva quaranta bolognini. Se invece aveva un peso inferiore a quello di conio, veniva considerato in proporzione a quanto mancava. Il fiorino era anche quotato in "soldi": cento se integro.

Il fiorino fiorentino veniva a volte ragguagliato alla lira perugina. Verso la metà del secolo c'è parità tra le due monete. Troviamo infatti, nel 1464, una somma di undicimila fiorini che, qualche riga sotto dello stesso documento, diventano undicimila lire.
Il "soldo" (sottomultiplo del fiorino) viene rapportato talora al "denaro" (moneta perugina sottomultipla della lira).
Abbiamo infine un'altra misura monetaria, la "libra". Ce ne volevano cinque per un fiorino.
A Fratta si adoperavano indistintamente sia i fiorini, sia i ducati (ma anche altre monete). In un atto notarile, "la pena" da darsi a chi non sta ai patti viene stabilita in "100 ducati d'oro", nonostante in Fratta prevalesse l'uso dei conteggi in fiorini. Nel 1471 troviamo il "carlino", di basso valore, di origine napoletana. Valeva dodici baiocchi. Sempre in quest'anno esiste anche il "ducato d'oro largo": ha il valore di un fiorino e 75 baiocchi circa. . . .

Libertà di fiera
Mercati settimanali e fiere si svolgevano a Fratta fin dal XIV secolo, regolamentati dagli Statuti del 1362. Nel 1400 sembra esserci solo la fiera di Sant'Erasmo, che si svolgeva il 2 giugno, giorno della festa del santo, davanti all'antica e omonima pieve, nell'odierna piazza Marconi.

Come negli altri castelli e ville del territorio, era soggetta ad una tassazione imposta da Perugia (città dominante), che poi la comunità di Fratta riversava sui commercianti intervenuti, recuperando così la somma versata.
La tassa della fiera comportava per i mercanti un certo onere, imponeva loro di fare una scelta sul venire o meno a Fratta, a seconda del vantaggio. In pratica, condizionava l'affluenza della gente a queste manifestazioni.
In considerazione di ciò, la comunità di Fratta cercò di liberare la fiera dalla "gabella", allo scopo di aumentare il concorso di venditori, quindi avere la maggior quantità e varietà di merci, prezzi più bassi (legge della concorrenza), in definitiva un vantaggio per la popolazione, oltre maggior guadagno per osti, marescalchi, "carradori", botteghe in genere.
Il risultato venne raggiunto a partire dal 1441, quando ne fece richiesta a Perugia. L’approvazione arrivò dal cardinale Firmano (Domenico da Fermo), delegato apostolico per l'Umbria e la relativa concessione, detta "privilegio", riguardava la fiera annuale del 2 giugno, probabilmente l'unica del secolo.
Fratta non doveva più pagare la tassa come le altre comunità dello Stato Romano e di riflesso non chiese più nulla ai commercianti. La concessione venne rilasciata per due giorni consecutivi, tanto durava la fiera di Sant'Erasmo dal 1441.
Nel 1444, il 31 ottobre, lo stesso cardinale Domenico da Fermo ribadisce la concessione (che doveva essere rinnovata annualmente) e permette di allungare la fiera a quattro giorni consecutivi: dal primo (vigilia della festa del Santo) al 4 giugno, decisione che il Comune accettò di buon grado.
Il 30 ottobre 1445, papa Eugenio IV conferma il "privilegio" specificando che 1'esenzione è "tam entrando quam in exeundo", sia all'entrata in Fratta, sia all'uscita a fine manifestazione e riguarda tutte le persone che intervengono con le bestie e con le merci ("cum eorum animalibus et mercantiis").
Il provvedimento rimane esteso anche agli abitanti di Fratta che prendessero parte a questa fiera che in quei quattro giorni “solemniter celebratur”.
Fratta fu informata del provvedimento del Papa dal cardinale legato di Perugia, Domenico da Fermo.
Nel XVI secolo, invece, la durata dell'evento fu portata ad otto ed anche dieci giorni.

Foto di Fabio Mariotti (quella del calzolaio dall'Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide)
Foto delle monete da Internet

Fonti:
- Calendario di Umbertide 2004 – Ed. Comune di Umbertide – 2004
- Renato Codovini: Storia di Umbertide - Il Secolo XV. Dattiloscritto inedito, 1992
- A. Guerrini: Storia della terra di Fratta ora Umbertide dalle sue origini fino all'anno 1845 -
Tipografia Tiberina, Umbertide, 1883
- M.G. Moretti: Salute e spezierie alla Fratta (Sec. XV - XX): Breve introduzione alla mostra,
Umbertide, Biblioteca Comunale, 27 settembre - 12 ottobre 2002. Dream Service, Umbertide, 2002
- P. Vispi: Il soggiorno e l'opera di Pico della Mirandola ad Umbertide - Ed. Comune di Umbertide, 1996

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monete a confronto

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Disegno di Adriano Bottaccioli

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Disegno di Adriano Bottaccioli dal Calendario di Umbertide 2004

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